Si chiedeva tempo fa in un suo scritto sulla rivista “Caccia Alpina” Vittorio Cristelli, prete e cacciatore, filosofo e maestro di etica: “si può parlare di etica della caccia, oppure è un ossimoro, cioè l’accostamento di due termini contradditori che si negano a vicenda? E si rispondeva spiegandoci che l’etica è la scienza del comportamento o del costume e come essa non sia però una scienza semplicemente descrittiva, come può esserlo la sociologia, bensì prescrittiva in quanto nasce dal riferimento ai valori e, come tale, formula giudizi in termini di bene e male, di dovere ed obbligo. L’etica riguarda ogni comportamento umano e non c’è attività umana che vi si possa sottrarre quindi a buona ragione, concludeva, possiamo parlare anche di “etica della caccia”.
Ogni manifestazione del vivere quotidiano, ogni contatto che un individuo ha con un proprio simile o anche con l’ambiente deve, poco o tanto, essere suffragata da un comportamento etico, da un codice di valori morali, che non hanno perciò fondamenti in una norma di legge che deve rispettare obbligatoriamente, ma fanno riferimento alla tempra interiore di ognuno di noi, a quel qualcosa che ci eleva, a volte solo un pochino, dal resto del genere animale a cui apparteniamo.
L’etica è infatti la scienza che controlla il limite che debbono avere le nostre azioni, al di là di quanto disciplinato dalle leggi, perché esse siano considerate ammissibili dal giudizio morale della Società. E’ l’insieme dei giusti comportamenti che ognuno deve avere per rapportarsi con la vita e le attività degli altri, una serie di regole che ognuno deve darsi per vivere bene.
Anche l’attività venatoria, per essere condivisa dalla Società, ma soprattutto per creare la possibilità di soddisfazioni vere, deve avere limiti etici di comportamento. Ovviamente il discrimine fra bene o male, nei comportamenti definibili etici è dato dal mondo dei valori a cui ci riferiamo o a cui si riferisce una determinata Comunità umana o una determinata “scuola di pensiero”. E’ chiaro, per stare nel nostro campo, come per chi nega a priori la possibilità che possa esistere un qualunque esercizio di caccia risulti risibile parlare di etica venatoria. Il mondo dei valori a cui deve fare riferimento il cacciatore del giorno d’oggi per declinare il proprio codice di comportamento, passa attraverso la presa di coscienza di come la caccia non sia più da considerarsi un hobby e tanto meno, come si classificava fino a pochi anni fa, uno sport: non siamo in “gara” con i nostri “amici animali”. Tuttalpiù una medicina salvifica contro lo stress della vita stereotipata che ci offrono le metropoli moderne. Come ci ricordava Mario Rigoni Stern: “Una giornata di caccia all’aria aperta, nel sole o nella pioggia, nel freddo o nel caldo, riesce a darci una carica vitale per altri sei giorni; e ricordi e immagini che ci seguiranno: un angolo di bosco, il colore di una foglia, il sole su una roccia e la nebbia su uno stagno, un volo, un fruscio, uno scatto nel sottobosco, una ferma del tuo cane o un abbaiare di segugi sono emozioni che ti faranno meno dure le ore di lavoro, sopportabile una delusione, una malattia o le altre manifestazioni della vita quotidiana, del vivere”.
Ma la mission a cui va fatto riferimento in via prioritaria per attingere al contenuto da dare ai valori che devono farci da riferimento, è il nostro compito di “curatori” del bene “fauna selvatica”, di “ordinatori della natura” come ci proponeva sempre Cristelli citando Kant. Di amministratori di una proprietà collettiva, perciò non solo nostra e della quale, se riusciamo a gestirla bene, ci è permesso di raccogliere la rendita. La nostra passione infatti si esplica oggi in un insieme di impegni vari (censimenti, ricerca scientifica, miglioramenti ambientali, ecc.) che le fanno assumere un significato sociale più ampio, di vera e propria attività di gestione del patrimonio faunistico e del suo ambiente. Un ambiente ormai completamente antropizzato, dove i rapporti fra presenze faunistiche e territorio non rispecchiano più gli equilibri naturali, dove il progressivo abbandono della montagna da parte dell’uomo dal dopoguerra in poi, ha concesso ampi margini di crescita a molte specie animali come ad esempio gli ungulati. Un mondo rinaturalizzato nel quale è però indispensabile mantenere corretti rapporti fra le varie componenti ambientali a garanzia di conservazione di un patrimonio pubblico di grande valore sociale. Un contesto di operatività complesso, quello della cosiddetta “caccia di selezione”, ancora poco correttamente disciplinato dall’impianto legislativo e dove devono convivere obblighi di tipo normativo-disciplinare legati agli aspetti tecnico-gestionali della materia e doveri morali, più intimi e personali che devono favorire il nostro convivere con le esigenze di un corretto rapporto con la natura e con chi condivide con noi la stessa passione.
Per quanto riguarda il primo aspetto vanno sicuramente riconosciuti gli sforzi fin qui fatti negli ultimi decenni del settore, da tecnici, amministratori, cacciatori e soprattutto, senza falsa modestia, da organizzazioni di pensiero quali l’UNCZA. Il prelievo pianificato e l’applicazione delle regole mutuate dalla biologia della selvaggina sono da tempo prassi gestionale e ovviamente i risultati positivi si vedono e del buon lavoro va dato atto.
Molto ancora, ci sembra di dover riconoscere, può invece essere fatto per regolare al meglio il nostro approccio etico al mondo della caccia. Una disciplina non gestibile con regole scritte, che deve passare attraverso il buon senso di ogni cacciatore e che i tempi del moderno qualunquismo e di una vita superficiale dove tutto sembra dovuto, non sembrano aiutare a produrre radice durevoli.
Regole di rispetto del rapporto fra il cacciatore, la fauna e l’ambiente, verso i colleghi cacciatori, soprattutto verso i non cacciatori, come ben ci spiegano le pagine di questo libro. Un comparto che va alimentato soprattutto con la buona preparazione, con le conoscenze approfondite circa la biologia e la gestione delle popolazioni selvatiche, con la presa di coscienza del nostro ruolo sociale. Regole di prudenza e cortesia verso la fauna, verso gli altri cacciatori, verso gli altri fruitori della montagna. Soprattutto verso questi ultimi è indispensabile proporre un’immagine inappuntabile del cacciatore. Buona parte di queste persone sono indifferenti o contrarie alla caccia: comportiamoci di conseguenza senza offendere dignità e pensiero altrui. Si tenga sempre presente che il giudizio anche su un solo cacciatore e sul suo comportamento si riversa immancabilmente sulla caccia in senso generale. L’esercizio della caccia richiede, poi, prudenza e rispetto delle colture e di tutti i beni ambientali, soprattutto in considerazione del fatto che spesso i terreni sono di proprietà privata.
Dobbiamo agire con profonda onestà in intellettuale anche e soprattutto quando siamo soli e privi di forme di controllo, ce lo ricorda bene Flavio in questo libro. Le nostre azioni di caccia dovranno sempre essere impostate in primo luogo al rispetto dell’animale, sapendo anche rinunciare al tiro quando necessario. Come regole etiche, di rispetto di noi stessi e di riconoscimento dell’importanza della nostra attività, sono anche l’applicazione di rituali e tradizioni, che possono variare da zona a zona; fondamentale fra tutte l’onorare il capo abbattuto, ad esempio avvicinandosi ad esso togliendosi il cappello ed offrendogli il rametto dell’”ultimo pasto”.
Sono poi norme di riconoscimento identitario e di rispetto per la nostra passione, anche l’andare a caccia, non eleganti, ma vestiti in modo appropriato, con abbigliamento sempre di colore compatibile con i colori della natura che ci ospita: verde, marrone, grigio, soprattutto evitando le ormai diffuse “tute mimetiche” di derivazione militare: noi non siamo in guerra con i nostri amici animali.
Leggiamo ed interiorizziamo bene quanto ci propone, con maestria ed esperienza, Galizzi in questo libro che deve rappresentare il nostro codice per il corretto comportamento.
Sandro Flaim
Presidente Nazionale UNCZA